"Non c'è più tempo per l'attesa. E' il tempo per la nostra generazione di prendere spazi e alzare la voce. Per dire che questo paese non ci somiglia, ma non abbiamo alcuna intenzione di abbandonarlo. Soprattutto nelle mani di chi lo umilia quotidianamente.
Siamo la grande risorsa di questo paese. Eppure questo paese ci tiene ai margini. Senza di noi decine di migliaia di imprese ed enti pubblici, università e studi professionali non saprebbero più a chi chiedere braccia e cervello e su chi scaricare i costi della crisi. Così il nostro paese ci spreme e ci spreca allo stesso tempo.
Siamo una generazione precaria: senza lavoro, sottopagati o costretti al lavoro invisibile e gratuito, condannati a una lunghissima dipendenza dai genitori. La precarietà per noi si fa vita, assenza quotidiana di diritti: dal diritto allo studio al diritto alla casa, dal reddito alla salute, alla possibilità di realizzare la propria felicità affettiva. Soprattutto per le giovani donne, su cui pesa il ricatto di una contrapposizione tra lavoro e vita.
Non siamo più disposti a vivere in un paese così profondamente ingiusto. Lo spettacolo delle nostre vite inutilmente faticose, delle aspettative tradite, delle fughe all'estero per cercare opportunità e garanzie che in Italia non esistono, non è più tollerabile. Come non sono più tollerabili i privilegi e le disuguaglianze che rendono impossibile la liberazione delle tante potenzialità represse. Non è più tempo solo di resistere, ma di passare all'azione, un'azione comune, perché ormai si è infranta l'illusione della salvezza individuale. Per raccontare chi siamo e non essere raccontati, per vivere e non sopravvivere, per stare insieme e non da soli. Vogliamo tutto un altro paese. Non più schiavo di rendite, raccomandazioni e clientele. Pretendiamo un paese che permetta a tutti di studiare, di lavorare, di inventare. Che investa sulla ricerca, che valorizzi i nostri talenti e la nostra motivazione, che sostenga economicamente chi perde il lavoro, chi lo cerca e chi non lo trova, chi vuole scommettere su idee nuove e ambiziose, chi vuole formarsi in autonomia. Vogliamo un paese che entri davvero in Europa. Siamo stanchi di questa vita insostenibile, ma scegliamo di restare. Questo grido è un appello a tutti a scendere in piazza: a chi ha lavori precari o sottopagati, a chi non riesce a pagare l'affitto, a chi è stanco di chiedere soldi ai genitori, a chi chiede un mutuo e non glielo danno, a chi il lavoro non lo trova e a chi passa da uno stage all'altro, alle studentesse e agli studenti che hanno scosso l'Italia, a chi studia e a chi non lo può fare, a tutti coloro che la precarietà non la vivono in prima persona e a quelli che la "pagano" ai loro figli. Lo chiediamo a tutti quelli che hanno intenzione di riprendersi questo tempo, di scommettere sul presente ancor prima che sul futuro, e che hanno intenzione di farlo adesso."«Ribadisco che la Grande Milano non può offrire accoglienza agli immigrati che stanno fuggendo dai sommovimenti in atto nel Nord Africa», ha appena dichiarato il presidente della provincia di Milano, Podestà. Ecco l’ennesima rinuncia delle giunte di centrodestra a governare i fenomeni per usarli invece come propaganda. E’ questa la “politica del fare”? Si enfatizzano le emergenze, alimentando le paure. Si fanno dichiarazioni superficiali senza cercare soluzioni. Si smuovono le viscere delle persone invece che assumersi responsabilità. Nei giorni scorsi, del resto, abbiamo visto diversi esponenti politici milanesi chiamare “clandestini” i profughi dal Nord Africa. Vorrei partire proprio da queste dichiarazioni per proporre alcune riflessioni sullo stato delle politiche sociali di Milano: siamo di fronte ad un’assenza complessiva di pensiero e di politiche di promozione del benessere.
Proprio la questione degli immigrati e della loro partecipazione alla vita pubblica della città ne è un esempio emblematico. Milano non parla più con il 16% dei milanesi, immigrati appunto, che considera come corpi estranei. L’Ufficio stranieri è ridotto all’impotenza; il Comune ha rinunciato a un ruolo attivo nei confronti delle vittime di tratta; e negli ultimi dieci anni i minori immigrati diventati adulti, ma trattati come soggetti non graditi, hanno maturato un senso di alienazione crescente. Questo modo di affrontare le questioni sociali ha prodotto macerie. Per le politiche sociali non è più tempo di “resistere”: è il momento di ricostruire.
A cominciare da un nuovo welfare, non assistenziale, ma capace di promuovere opportunità e integrazione. Su questo versante l’attuale amministrazione ha fallito. Nel corso dei diciotto anni di governo di centrodestra le politiche sociali a Milano hanno infatti subito colpi sempre più duri. Esperienze importanti sono state interrotte. Le reti di risposta ai bisogni sono sfibrate, lacerate. Gli operatori sociali stanchi e sfiduciati. All’interno dell’amministrazione comunale prevalgono la solitudine e la demotivazione; all’esterno, il terzo settore guarda con sempre maggiore diffidenza a una classe dirigente inaffidabile e poco autorevole. A questo si aggiunge la crisi economica che rende ancora più complesso l’obiettivo di riprogettare il welfare milanese. Da un lato, infatti, diminuiscono le risorse, dall’altro aumentano e si differenziano i bisogni.
Eppure sono convinto che alcune scelte strategiche sono ancora possibili. Ecco alcune “leve per ricostruire”:
a) Regia pubblica e nuove municipalità - Il comune deve tornare a gestire i processi di partecipazione, indicare le priorità, costruire reti, promuovere pensiero sul benessere a Milano. Milano è una città ricchissima di competenze, iniziative e risorse economiche. L’associazionismo, il volontariato, la cooperazione, le fondazioni hanno in questi anni proposto molti interventi e progetti, ma è mancata la regia pubblica. Una grande assente, che rinunciando a svolgere con competenza e autorevolezza il suo ruolo, ha fatto sì che spesso gli interventi sociali, in un contesto di drammatica frammentazione, fossero ridondanti per alcune aree e latitanti per altre.
Le nuove municipalità potranno rappresentare una risposta a questa criticità, avvicinando l’amministrazione ai quartieri e diventando un punto di riferimento per una progettazione che parta dai bisogni e dalle risorse sul territorio. Le fondazioni e il terzo settore devono inoltre essere coinvolti in modo non rituale e burocratico, superando le rigidità degli attuali piani di zona. Il terzo settore deve tornare a essere un partner della progettazione e non solo un fornitore.
b) Una macchina amministrativa efficiente e competente – La macchina comunale può tornare a innovare e ritrovare autorevolezza ed efficacia attraverso: 1) il coinvolgimento dei quadri per razionalizzarne i settori; 2) un piano straordinario di formazione e preparazione al lavoro sul territorio; 3) la meritocrazia nelle nomine; 4) nuovi orari di apertura al pubblico dei servizi
c) Welfare comunitario - Per favorire coesione e quindi benessere, occorre restituire protagonismo alle comunità locali, promuovendone la responsabilità, senza più delegare le risposte ai professionisti del sociale. Serve una politica capace di integrare il modello di welfare tradizionale, incentrato sulla risposta personalizzata al bisogno, con un approccio che consideri il territorio come luogo di sintesi e integrazione delle diverse politiche di governo della città. La proposta dell’Officina per Milano di Pisapia di riorganizzare i servizi comunali attorno ai “Centri di Quartiere” va esattamente in questa direzione.
d) Integrazione di sociale e sanitario – Le politiche sociali e sanitarie devono tornare a essere integrate. In particolare la prevenzione e la tutela della salute fisica e psichica per minori e adulti, l’integrazione sociale e la riabilitazione dei disabili, richiedono interventi e percorsi di presa in carico integrati tra le diverse agenzie sanitarie, sociali e educative del territorio. Occorre garantire anche la continuità degli interventi al compimento del diciottesimo anno d’età, anteponendo il progetto di vita delle persone ai vincoli organizzativi.
e) Prevenzione e promozione: le politiche sociali, un investimento e non un costo – Si deve abbandonare quella logica emergenziale da cui siamo partiti per queste considerazioni, logica che lascia esplodere le situazioni, per intervenire solo quando i problemi si sono incancreniti. In sintesi, la logica del “fa meno che si può”. Al contrario, bisogna promuovere sperimentazioni e interventi nelle situazioni di normalità: scuole, centri sportivi, luoghi di incontro e svago. Prevenire le emergenze e promuovere il benessere.
Pubblicato su www.arcipelagomilano.org